3. Unità d’Italia e Federalismo

di Silvio Gambino (UniCal)

Nel 1861, l’Italia si è data forma (costituzionale) e contenuti (storico-politici) di uno Stato unitario. Occorre ora continuare ad operare per consolidare una idea di Nazione italiana, capace di riconoscere e valorizzare la diversità e la pluralità delle culture e delle esperienze storico-statuali che hanno preceduto la formazione dello Stato unitario. Centocinquanta anni fa, appunto! Queste erano le conclusioni principali delle riflessioni che abbiamo proposto al lettore nei due interventi che precedono l’odierna riflessione.

Molte e di direzione diversa sono ora le pulsioni che attraversano il corpo profondo del Paese. E non sempre, né solo, sotto-traccia! Negli interventi appena citati le abbiamo riepilogate, innanzitutto, nella minaccia di una secessione (‘fredda’, in quanto non appare davvero seria la minaccia di una violenza rivoluzionaria che coinvolga l’intero Nord, risalentemente civilizzato). Con buona pace degli assalti rumorosi ai campanili e alle illegali e irresponsabili allusioni al ‘popolo in armi’ da parte del Ministro delle riforme Bossi!

In secondo luogo, abbiamo colto più di una traccia di queste pulsioni nella minaccia concreta di un debordamento delle diverse mafie operanti nelle regioni meridionali dall’alveo della illegalità (nel quale sono confinate e perfino tollerate, come denunciano coraggiosi pubblici ministeri impegnati nel loro contrasto giudiziario), per candidarsi in modo più diretto al governo/amministrazione di regioni e autonomie locali delle regioni del sud.
Ora – per come hanno già osservato accreditati commentatori di fatti politici – appare come minimo dubbioso che la piena attuazione del federalismo fiscale possa soddisfare, nel tempo medio-lungo, le aspirazioni/aspettative ‘rivoluzionarie’ del leghismo padano (soprattutto del relativo ceto politico). Ma se così fosse, rimarrebbe comunque posto e non risolto un malessere che, in alcune delle aree più produttive del Paese, ha assunto le forme (risalenti e attuali) della minaccia secessiva, più o meno strisciante, più o meno urlata. Un malessere che chiede comunque di essere riconosciuto (se non perfino legittimato) e governato con politiche istituzionali e costituzionali all’altezza della serietà della sfida e della gravità della minaccia.

Visto dalla prospettiva del Sud, questo malessere assume soprattutto le forme di una tendenziale marcia delle mafie territoriali verso il controllo delle amministrazioni pubbliche, tanto autonomistiche quanto decentrate. Non mancano – sia chiaro – resistenze e di qualità! Innanzitutto, quelle di magistrati coraggiosi, determinati a non arretrare rispetto all’obiettivo della garanzia della legalità e dello Stato di diritto.  Talora con eroismo e talora ancora impegnando la propria vita. Naturalmente, non si tratta di tutti il corpo dei magistrati, come le cronache di questi giorni tristemente denunciano! Non mancano neppure politiche lungimiranti di contrasto dei tentativi di penetrazione mafiosa nelle amministrazioni territoriali, mettendo al riparo appalti e contratti pubblici. L’esperienza della istituzione di Stazioni Uniche Appaltanti ne costituiscono una buona riprova. Salvo ad attendere per osservarne gli esiti in termini di garanzia della trasparenza e del buon andamento amministrativo delle amministrazioni territoriali nel breve-lungo termine! A fronte di questi generosi tentativi, a livello statale, tuttavia, sono da registrare fallimenti allarmanti del principio di legalità. Per tutti si ricordano l’allargamento dell’area delle deroghe nell’ambito della ‘protezione civile’, sulla base di confusioni (giuridicamente discutibili) fra ‘necessità’ e ‘urgenza’ alla base delle deroghe alle procedure della contrattualistica pubblica. La cronaca quotidiana di un Paese affollato di ‘amici di merenda’, insomma, è fin troppo illuminante per richiedere altre parole.

Ma vi è anche più di un lato positivo, da cogliersi in quelle politiche pubbliche attuative della cittadinanza sociale, come l’istruzione pubblica (scuola e università), che lasciano ancora evidenziare una faccia amica dello Stato; ciò almeno fintanto che una politica ultra-liberista (che non distingue nei tagli ai finanziamenti pubblici alle diverse amministrazioni, ove necessario), come quella avviata dal Governo in carica e dal suo Ministro per l’Economia Tremonti, non rischia di determinare un vero e proprio default in materia, con effetti assolutamente imprevedibili e comunque gravi sulla tenuta del sistema formativo pubblico. Parlando di scuola e di università, tuttavia, non vogliamo dare l’impressione di voler parlare in modo auto-referenziale; ma non possiamo comunque non sottolineare come, secondo un giudizio che direi universale e senza differenze ideologiche, il successo nel contrasto delle illegalità diffuse e delle mafie può venire solo da cittadini che siano liberi e informati. Questa è la missione della scuola. Nella stessa ottica ma più ambiziosa ancora quella dell’università. Facendo un passo indietro e guardando direttamente in faccia alla composita realtà politico-istituzionale che andiamo da giorni analizzando, non possiamo non rilevare come, nell’ottica delle questioni analizzate, il modello costituzionale della “Repubblica delle autonomie” disegnato dalle riforme costituzionali del 1999/2001, nel fondo, faccia acqua da tutte le parti, meritando più di una rivisitazione costituzionale. Parlando da costituzionalista, dovrei essere un po’ più prudente, ma la realtà comunque non muterebbe a seguito di una siffatta prudenza.

Quanto al riadeguamento della distribuzione delle competenze-(poteri) fra Stato, regioni ed enti locali secondo un criterio razionale e di adeguatezza (che rapporta l’interesse da governare con il livello istituzionale più adeguato nel farlo), la Corte costituzionale, da anni, sta procedendo nel ridisegno della mappa dei poteri pubblici che era stata malamente allocata dal legislatore di riforma costituzionale.
Per il resto, si registra un evidente scollamento fra le aspettative/previsioni autonomistiche (di comuni, province, città metropolitane e regioni) e la loro mancata partecipazione in una istanza costituzionale idoneamente prevista allo scopo e capace di assicurare la volontà partecipativa del sistema autonomistico minore alla formazione della volontà dello Stato. La trasformazione del Senato della Repubblica in una ‘Camera delle autonomie territoriali’ costituiva (e costituisce tuttora) la scelta obbligata per un modello costituzionale come quello delineato dalla riforma costituzionale. L’accesso anche degli enti locali alla Corte costituzionale avrebbe dovuto (e dovrebbe tuttora) accompagnare una simile strategia di riforma costituzionale, per assicurarne quella equi-ordinazione che la Costituzione ha stabilito.

Il centro-sinistra che ha in modo frettoloso e abborracciato disegnato quella riforma costituzionale non sembrava avere idee molto chiare sul punto, né, e soprattutto, il coraggio e la determinazione di portarle ad esistenza. Soprattutto appariva letteralmente terrorizzato per la possibile sconfitta nelle elezioni allora imminenti e per il possibile successo della Lega. Né la prima né il secondo furono evitati da una simile politica costituzionale, al contempo timida e confusa. Con la conseguenza, come era inevitabile che avvenisse, di una riforma destinata a lasciare irrisolto il rapporto fra Stato, regioni e autonomie locali. L’immagine del ‘guado’ e del ‘fiume’ che scorre vorticoso è quella cui spesso si ricorre per illustrarne gli eventi. A fronte di queste incertezze politiche e istituzionali, tuttavia, vi è stato chi non ha avuto dubbi. Fuori da metafora, vogliamo dire, cioè, che l’abrogazione delle disposizioni costituzionali relative ai controlli sugli atti amministrativi delle regioni e degli enti locali, nonché degli enti da questi dipendenti, ha lasciato via libera alle incursioni generalizzate e irresponsabili di una politica onnipotente e onnisciente, e di una burocrazia nel fondo asservita a questa logica. Una politica e una burocrazia spesso alleate per l’organizzazione del clientelismo e dell’affarismo per conseguire finalità non certo politico-partitiche ma di appropriazione privata. Le casse dello Stato e con esse il principio di legalità ne hanno pagato lo scotto. La stampa nazionale e locale di questi giorni riferisce a tutta pagina le statistiche approntate dalla Corte dei Conti su questa evidente “caporetto” dell’Erario: enti territoriali e aziende sanitarie locali dell’intero Paese ultra-indebitati. Tutto ciò con buona pace delle regole sulla competenza manageriale nella scelta dei dirigenti sanitari e della responsabilità del ceto politico regionale.

A fronte di un simile quadro – e siamo quasi all’epilogo della narrazione – la sfida del federalismo fiscale e gli indirizzi operativi del Ministro all’Economia Tremonti e della Copaff che lo coadiuva individuano appunto nella rivisitazione dei sistemi di finanziamento delle regioni, delle autonomie territoriali minori e del sistema sanitario, nonché nella corrispondente (e comunque necessaria) responsabilizzazione della classe politica e di governo regionale e locale il loro obiettivo politico-istituzionale; la strategia di fondo perseguita dal federalismo fiscale. Accanto a tale strategie, in una recente Relazione al Parlamento sull’attuazione del federalismo fiscale, il Ministro Tremonti ha opportunamente parlato di forme di sanzione giuridica nella ipotesi di ‘fallimenti della  politica’ in materia sanitaria. In altri termini, se nella loro autonomia le regioni decidono (nella gran parte delle regioni è così) di non controllare la spesa pubblica e i bilanci delle aziende sanitarie locali, in quanto ciò risulta più vantaggioso nella raccolta del consenso elettorale, lo Stato non può assistere in modo passivo. Accanto ai vincoli comunitari del Patto di stabilità e crescita, l’ordinamento prevederà nell’immediato futuro l’incandidabilità dei Presidenti della Giunte regionali che omettessero i riscontri previsti dalle leggi in materia. In verità, a garanzia della legalità e della tenuta dei conti pubblici dovrebbero bastare le stesse previsioni costituzionali in materia di scioglimento dei consigli regionali (per sistematica violazione delle leggi).

Ma un simile controllo non ha mai avuto una grande frequentazione nel Paese Salvo a ritornare, come faremo in altra occasione (se il lettore di questo quotidiano dimostra un qualche interesse al tema), su alcuni dubbi di incostituzionalità di alcune, limitate, disposizioni della legge n. 42/2009 (di attuazione del federalismo fiscale), gli obiettivi di responsabilizzazione istituzionale del ceto politico dei governi regionali e locali sono indubbiamente da condividere. Direi che non si potrebbero comprendere le regioni di chi questo obiettivo non dovesse condividere. In questo senso, si può forse spiegare il voto maggioritario del Parlamento nell’approvarne la legge, se si fa eccezione per l’UDC. Naturalmente, l’analisi dovrebbe a questo punto profondersi nell’analisi della crisi dei partiti politici che li ha ridotti allo stato penoso nel quale possiamo ora osservarli. Nel centro-destra e nel centro-sinistra. Non è che mancassero idee e suggerimenti ma, almeno visto dal panorama di sinistra e di centro-sinistra (per serietà scientifica non si possono fare distinzione di rilievo sul punto), netto e senza appello è stata la volontà di non avviare una autoriforma dei partiti politici. Almeno di ciò che di essi è rimasto e che occorre preservare. Direi in modo geloso, in quanto il futuro di una politica senza partiti responsabili è fatta di soli demagoghi e di partiti personali. Rimangono almeno due dubbi che in modo non sommesso andiamo sottolineando da tempo nelle analisi tecnico-scientifiche.


Il primo riguarda la scomparsa pressoché completa (sia a livello formale che materiale) dei controlli amministrativi. Nelle more di un’auspicata revisione costituzionale in materia – a giudizio di chi scrive non ulteriormente rinviabile in un Paese che non voglia conoscere l’umiliazione (e non solo quello) del recente default finanziario della Grecia – occorre che almeno una legge statale di principi assicuri una copertura attuativa e specificativa della previsione costituzionale in materia di controllo sostitutivo (art. 120.2). Senza una simile legge, regioni, enti locali e aziende sanitarie locali continueranno gioiosamente la loro folle e irresponsabile danza sul cratere di una drammatico default finanziario del Paese. Pertanto, la tesi è che, senza adeguate decisioni politico-istituzionali sul punto, il traumatico evento economico appena richiamato rischierà di risultare inevitabile.

Ma c’è un secondo dubbio. Ammettiamo pure che il federalismo fiscale trovi compiuta attuazione con i decreti legislativi in corso di adozione. Cosa farà il Paese se un sospetto che attraversa alcuni di noi, soprattutto al Sud – ma siamo in buona compagnia, a leggere le analisi e le previsioni statistiche allarmate della SVIMEZ, che operano sullo stato dell’arte (che al momento non vede ancora attuata la disposizione costituzionale di individuazione e di finanziamento delle funzioni fondamentali di comuni, province, città metropolitane e regioni) – dovesse rivelarsi non più tale, ma realtà concreta. Facciamo riferimento, in concreto, all’ipotesi, a federalismo fiscale pienamente attuato, di una incapienza fiscale delle regioni e degli enti locali meridionali nell’assicurare la continuità delle istituzioni territoriali, una volta che la perequazione fiscale si sarà fatta carico di garantire i livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti civili e sociali su tutto il territorio nazionale (11 regioni ordinarie su 15 rischiano una simile situazione). Non si corre il rischio, a distanza di un secolo e mezzo, di una riedizione delle sollevazioni contro lo Stato, prodotte a suo tempo dal varo della “tassa sul macinato” da parte dei governi liberali dello Stato post-unitario? In quella tragica occasione, la repressione fu il solo strumento che lo Stato liberale seppe maneggiare per riportare la situazione sotto controllo (ci permettiamo sul punto di suggerire la lettura del bel saggio storico di Roberto Martucci, Emergenza e tutela dell’ordine pubblico nell’Italia liberale, Bologna, 1980).

Amiamo sperare vivamente (non volendolo supporre) che simili dubbi o sospetti possano risultare effettivamente eccessivi. Rimane tuttavia che, se così non fosse, quel solco già profondo a suo tempo tracciato a divisione del Nord dal Sud del Paese, a seguito delle politiche repressive dei primi governi liberali dello Stato post-unitario, continuerebbe ad approfondirsi – questa volta sì – rischiando di rompere in modo grave e forse definitivo l’Unità nazionale e con essa la stessa legittimazione politica dello Stato.

Che venne alla luce, come abbiamo raccontato nei giorni scorsi, appena 150 anni fa. Un tempo ancora troppo breve per il prodursi di pratiche di tranquilla continuità e stabilità politico-istituzionale. Si trattava, infatti, per come abbiamo sottolineato più volte, di una Unità del Paese nata in modo precario, in quanto fondata più sulla lungimiranza democratica, liberale e laica di minoranze illuminate che avevano promosso e accompagnato il Risorgimento nei suoi passi, che sul diffuso consenso politico delle popolazioni e dei territori un tempo parti delle statualità poi confluite nello Stato al momento della unificazione politica del Paese. Un’analisi – quest’ultima – che può risultare convincente quando si rifletta al consenso prestato – nella fase post-eroica della ‘impresa dei Mille’ – dalle popolazioni meridionali, culturalmente e perfino idealmente conformate alle politiche del Regno borbonico delle due Sicilie, prima, drammaticamente impoverite (nella economia e nella libertà) dalle politiche repressive e dalle politiche tributarie della Casa Savoia, successivamente. Le prime e le seconde ponendo le premesse di un dualismo Nord-Sud e di una ‘freddezza astiosa’ verso lo Stato centrale e i governi territoriali che solo i ciechi riescono a non cogliere nelle pratiche politiche osservabili!

 

 

Articolo precedenteArticolo successivo

Non ci sono commenti